Doverosa
la cittadinanza onoraria a Marcello Martini
Franco Di Giorgi
Il
4 maggio il Comune di Castellamonte ha conferito a Marcello Martini – deportato
nel Lager di Mauthausen – la cittadinanza onoraria. Un tale conferimento a
persone come lui andava fatto non solo in segno di rispetto per quello che, assieme a tanti altri innocenti, ha subito
in quei luoghi di tortura e di morte che solo l'altro ieri infestavano ed erano
attivi in diversi Stati dell'Europa civilizzata (compresa l’Italia), ma
soprattutto per un senso del dovere,
per quello che egli è e per quello che ancora rappresenta nella storia del
vecchio continente. Per questa storia Marcello è e rappresenta un mártyros, ossia colui che nella lingua
greca incarna ad un tempo il “martire” e il “testimone”. Come tale, egli è una
di quelle numerosissime vittime che rappresenta o ri-presenta (nel senso che ci
fa ricordare) quella deviazione o aberrazione che solo una settantina di
anni fa una certa quota di esseri umani aveva impresso all'umanità nel segno
dell'annientamento, della distruzione e dell’autodistruzione. In una parola,
nel segno della Vernichtung o della Shoah. Più che di un errore si era
trattato infatti di un erramento, di
un'erranza da un solco che fino a
quel momento l'umanità aveva tracciato e coltivato per cercare di dare un senso
a una delle domande più originarie e più profonde: “verso dove andiamo?”. Con i
propri occhi egli ha visto e sulla propria pelle ha sentito la Gewalt, la violenza tremenda che era
stata necessaria per fare deragliare l'umanità da quel solco e per farla
precipitare nella più squallida abiezione.
Gli esseri umani, infatti, ricordava Liana Millu (un'altra deportata, ma nel
campo di Auschwitz), una volta sfruttati, venivano gettati via come degli obiecta, come degli oggetti, come delle
cose, come delle sedie che, una volta rotte, si buttano via. Si facevano delle
cataste e poi vi si dava fuoco. Per questo motivo la martyría, la testimonianza degli scampati al Nulla, al Nicht, è sacra,
perché il loro martýrion, la loro
esperienza vissuta e patita, per quanta passione essi mettano nei loro racconti
e per quanta attenzione facciano coloro che li ascoltano, lo rammentavano
amaramente sia Wiesel sia Améry, è difficile da dire e quindi da tramandare. Le
parole infatti, confessava lo stesso Primo Levi, funzionano male sia «per cattiva ricezione», «sia per cattiva trasmissione». Questa
confessione compare nella Prefazione che Alberto Cavaglion ha scritto per la
pubblicazione della testimonianza di Martini: Un adolescente in Lager. Ciò che gli occhi tuoi hanno visto
(Giuntina, 1997). Il significato di questo sottotitolo è equivalente al titolo
della prima testimonianza di Levi, Se
questo è un uomo. Vale a dire: gli occhi del quattordicenne Marcello (nato a Prato nel 1930, catturato il 9 giugno del 1944 e
liberato il 5 maggio 1945) hanno visto e vissuto tutto il valore dubitativo implicito in quel “Se”: se questo è un uomo, com'è allora
che egli può compiere sugli altri uomini quello che ha compiuto? Com’è che,
sebbene in modalità diverse, continua ancora a compiere? E inoltre, quanto
doveva odiare se stesso se, per quanto in generale di formazione cristiana,
aveva messo da parte il principio “Ama il prossimo tuo come te stesso”? E' su
questo dubbio atroce che si dovrebbe
riflettere in maniera adeguata, e non solo in occasione della Giornata della
Memoria. L'attualità (non solo politica), poi, ce ne dà quotidianamente spunto.